Vestita come la mi’ nonna:

del ridere e della verità con Carlo Collodi

Oggi vorrei parlare con voi di un aspetto che spesso non viene considerato quando si racconta ai bambini: il ridere.

I bambini adorano chi li fa ridere, perché la risata rilassa, distende animo e muscoli, ma la possibilità di ridere con qualcuno da cui ti senti voluto bene libera l’anima che può apprezzare la propria vulnerabilità e verità.

Chi ci insegna questo? Collodi sicuramente.

Pinocchio racconta alla volpe e al gatto tutta la verità delle monete e dei suoi intenti, poi di fronte alla fata mente. (Quante volte ci difendiamo noi proprio da ciò che di bello ci sta accadendo! Non capita solo ai bambini.) Racconta una bugia dietro l’altra, lasciandosi travolgere dalla propria amara fantasia e volge lo sguardo alla fata in attesa di una risposta. E la fata che fa?

La fata ride, ride con affezione delle bugie di pinocchio, ride, per riaccoglierlo anche nelle sue bugie. Questo suo ridere non giudica la persona che ha davanti, ridere non è allontanare la verità di ciò che accade ma riaccogliere il bambino, mettendo avanti il proprio amore e non il giudizio. Non dico che ridere delle malefatte sia la strada corretta, ma che a volte potremmo fare il passo di considerare l’inesperienza e i tentativi goffi dei bambini di riparare alle cose riaccogliendoli,

non focalizzarci solo sul giudizio come se quel comportamento fosse specchio della persona da qui in eterno.

La fata se non sgrida Pinocchio (in quest’occasione!) non lo giustifica neppure, non esamina le problematiche che l’hanno portato a questo comportamento mettendo queste avanti.

Che cambiamento porta questa sua posizione? Se Pinocchio ha il problema di capire cosa l’ha portato a fare uno sbaglio, la fata ha il pensiero del perdono. Nei mille monologhi del burattino giungiamo alla fine a un pentimento, non un’autocritica, non un tentativo di giustificazione, ma un pentimento. Quest’ultimo è il primo passo per arrendersi a Dio e ridiventare uomo. L’autocritica, la psicologia, se cercata come unica fonte di risposta su di sè (e forse anche su altri) porta ad arrendersi (parlo di una resa senza speranza; quindi, non positiva) al limite dell’uomo e lo disumanizza. La fata invece riaccoglie tutto pinocchio, il suo limite, il suo pentimento e il suo destino.

Ridere apre all’accoglienza, schiude il cuore e educa.

Un altro esempio lo troviamo nella traduzione delle fiabe di Perrault. Questa traduzione fu richiesta dall’editore Paggi[1] a Collodi nel 1875. Furono una vera scoperta per il giornalista cne cominciò con esse a scoprire il mondo dell’infanzia. E si trova immerso in un mondo dove è libero di essere il “monello” che era e che sotto-sotto é ancora. 

Collodi traduce le fiabe francesi, ma non può resistere alla tentazione di metterci “del suo” e nel raccontarle le cala nel contesto moderno mostrandone anche i tratti paradossali. 

Ma qual è la novità di questa traduzione? La morale un po’ canzonatoria alla fine di alcune fiabe sembra quasi voler prendere a braccetto il lettore, con l’impazienza a volte di rassicurarlo circa ciò che sta per accadere, rendendo così, lettore e autore “buoni amici”.

Sul finale di Barbablu, fiaba tra le più famose per ferocia e paura, scrive Collodi:

Da questo racconto, che risale al tempo delle fate, si potrebbe imparare che la curiosità, massime quando è spinta troppo, spesso e volentieri ci porta addosso qualche malanno. (Barbablu)

Alleggerisce il contenuto e ride delle terribili crudeltà narrate. Un ridere che allontana, che prende le distanze dalla paura vissuta (quante volte i bambini ridono mentre sono sgridati?) e riporta il bambino e noi alla realtà, utilizzando l’ironia per risollevarci dalle sofferenze vissute (o che potremmo incontrare?).

Ma l’esempio a cui pensavo dall’inizio di quest’articolo è la fiaba del “La bella addormentata nel bosco”. È una fiaba che insieme a quella di “Raperonzolo” viene spesso cambiata mostrando una principessa che si salva da sola e non aspetta l’arrivo di un principe a cavallo a cambiare la situazione.

John Collier

Lasciatemi fare una piccola disgressione, queste fiabe non raccontano di come si debba sempre attendere l’arrivo di qualcuno a salvarti, affermando l’impossibilità di potersi amare e contare su di sé. Queste principesse son chiuse in una torre e circondate da rovi inestricabili, sono come “incastrate” in loro stesse. Pensate a quelle volte che vi ritrovate in situazioni in cui siete effettivamente preda di pensieri inconcludenti, prigionieri di una situazione che non sapete come gestire e preda di emozioni che tengono in ostaggio il vostro cuore allontanandolo dalla realtà, assopendolo.

Occorre che qualcosa accada. Occorre che qualcuno arrivi a tirarvi fuori dal buco nero o dalla torre in cui vi siete chiusi. E che venga perché vi ama. Sia un amico caro che mette il vostro bene prima di tutto o un fidanzato, non ha importanza. L’unica caratteristica richiesta è che vi voglia bene davvero, se no non se ne esce.

La realtà è che non ci si salva da soli, ma sicuramente abbiamo il dovere verso noi stessi di curare uno sguardo che sia sempre più leale verso ciò che desideriamo, (dormire 100 anni, prendendosi il tempo di vivere la propria ferita e poi uscire) così da riconoscere chi ci vuole bene adesso, per il quale non dobbiamo fare nulla per essere amati.

Gustave Dorè

Il principe diede la mano alla principessa perchè si alzasse: ella era già abbigliata e con gran magnificenza: ed egli fu abbastanza prudente da non farle osservare, che era vestita come la mi’ nonna, e che aveva un camicino alto fin sotto gli orecchi, come costumava un secolo addietro!

Un principe attento alla sensibilità femminile tipica di chi desidera sentirsi parte adeguata del contesto. Un approccio che vuole introdurre l’altro alla verità che c’è all’esterno, in modo che si senta accolto e adeguato a ciò che lo circonda. E come far notare questo? Con ironia, alleggerendo e allontanando un giudizio verso chi è fragile e assopito, conducendolo a un risveglio sereno. Il principe allora non è colui che “salva” ma che riconduce alla realtà, con amore.

Se questo racconto avesse voglia d’insegnare qualche cosa potrebbe insegnare che chi dorme non piglia pesci… ne marito. La bella addormentata nel bosco dormì cent’anni, e poi trovò lo sposo: ma il racconto forse è fatto apposta per dimostrarne alle fanciulle che non sarebbe prudenza imitarne l’esempio. (La bella Addormentata)

La morale collodiana irride il dormire per un secolo, spostando lo sguardo verso l’incontro con lo sposo, fulcro di liberazione dal proprio limbo. Così che permanga in noi, l’attimo in cui abbiamo riconosciuto che ha affrontato i rovi del nostro cuore per raggiungerci più che la nostra solitudine. Sembra quasi che l’intento di Collodi non sia appena quello di tradurre delle fiabe, ma di divertirsi facendolo, creando un girotondo attorno alla verità. E di fatto vuol far divertire anche noi. In barba alle fate ed ai grandi regni, sorride di questa piccola e grande realtà, specchiata nel fiabesco.


[1] un editore che si lanciò nell’editoria per l’infanzia all’epoca, stesso editore che pubblicò Giannettino e Minuzzolo